
Capo Verde da scoprire
Al mattino seguente l’arrivo, dopo colazione, liberatomi di un collega chiaccherone, sono andato in spiaggia ed è iniziato il mio Viaggio a Capo Verde. Il villaggio turistico non era niente di speciale, il cibo appena ok ma la spiaggia è stata davvero una sorpresa.
Profonda oltre cento metri e lunga, lunga da non vederne la fine. Ho cominciato a camminare in direzione del nulla. Davanti a me l’America, dietro l’Africa, quella Nera. Man mano che mi allontanavo dall’albergo nel mio Viaggio a Capo Verde le orme sulla sabbia divenivano più rade e la sensazione di essere finalmente solo si impadroniva di me. Il pensiero va subito all’Italia dove sapevo stava piovendo e la temperatura non era proprio mite. Oltrepasso una coppia di turisti pescatori, dall’aria molto europea, dopo un po’ incrocio un triangolo di italiani (lei, lui e l’amico), chiacchierano forte, ridono, quasi disturbano (quanto sanno essere inopportuni i turisti).
A un certo punto la spiaggia curva e dopo un centinaio di metri lascia intravedere l’isola di Boa Vista.
Il cielo è terso e si riesce a distinguere le foreste sui pendii delle alture. Tra le dune alla mia destra scorgo un nativo seduto. Attorno ancora nulla. Forse mi guarda, come non potrebbe scorgere l’unico essere umano che anima l’orizzonte. Proseguo e dopo qualche minuto ne scorgo un altro che cammina tra le dune. All’orizzonte si profila un elegante e candido veliero e alcune barche stanno portando al largo pochi turisti intraprendenti.
Sal, la partenza del mio Viaggio a Capo Verde
Penso a quanto tutto qui sia minimalista, essenziale, lineare, come il nome dell’isola. Sal. Poco più di una grande portaerei, piatta, senza un albero (che non sia trapiantato di fronte a una stanza d’albergo). Una grande salina dove la storia capoverdiana è passata senza lasciare testimonianza che non fosse l’aeroporto intercontinentale. Qui dal dopoguerra per un paio di decenni le compagnie aeree europee e sudamericane facevano scalo per rifornirsi sulla rotta da e per il Sudamerica. Tempi di moderni pionieri. Qui allora, come a Praia e nelle altre isole, c’era ben poco. I fasti del passato coloniale erano testimoniati ormai dalle fatiscenti architetture coloniali rimaste. Il Portogallo di Salazar pareva essersi dimenticato (nel bene e nel male) di questi rutti vulcanici in mezzo all’Atlantico che ebbero in sorta di colonizzare quando le loro navi solcavano vittoriose i mari di mezzo mondo.
Gli anni Settanta
Intorno agli anni Settanta, con l’avvento dei jet la velocità degli aerei è aumentata e con essa l’autonomia La trasvolata atlantica ormai avveniva senza scalo. E Capo Verde morì una seconda volta. Ora il turismo ha riportato lavoro e valuta forte e il trampolino di lancio è stato ancora una volta Sal, la meglio raggiungibile, quella con le spiagge più belle. All’aeroporto, dove scrivo queste note in attesa di partire per Sao Vicente, sono andato solo lasciando l’occasionale compagno di viaggio, giornalista anche lui, a rosolarsi al sole. Lui partirà più tardi per Santiago, ci rincontreremo a Fogo un paio di giorni prima di tornare in Italia.
Sao Vicente è una bella isola, molto più verde di Sal che non lo è affatto.
L’ATR 42 è pieno di francesi appena sbarcati da Parigi e di alcuni capoverdiani immigrati che tornano in visita. Ostentano orecchini, catene d’oro massiccio, acconciature molto tecno e soprattutto abiti invernali, che qui devono essere lo status symbol di chi vive in Europa e lo ostenta. Con loro è una distinta signora sui cinquanta, alta almeno quanto me (1,88), fasciata in un abito leopardato e accompagnata dal marito o compagno francese, piccolo di statura, con qualche anno in più e in evidente stato di adorazione. Raccolte le valige (dal marito) attraversa con passo deciso la sala arrivi del piccolo aeroporto seguita da una montagna di bagagli dietro alla quale arranca affaticato il poveretto.
Mindelo, il centro maggiore dell’isola, al tempo del mio Viaggio a Capo Verde contava 47.000 abitanti.
E’ considerata una grande città, ha una rinomata vita notturna ed è anche bella. Molto coloniale, molto portoghese. Le grandi piazze e le stradine alberate sono fiancheggiate da edifici neoclassici e neobarocchi dipinti con colori sgargianti, sicuramente inusuali per noi europei ma assolutamente sobri per i capoverdiani.
A proposito di capoverdiani qui lavora Catarina.
Dirige una discoteca e non poteva che essere così. Catarina l’avevo conosciuta a Firenze esattamente vent’anni prima. Non molto alta, ben fatta, carina, di gran classe. Un bijou, un bonbon al cioccolato dalla pelle vellutata e dalla lingua tagliente. Lei era anche un poco snob, sempre alla moda ed elegantissima. Viveva di notte, tra una discoteca e l’altra, la dolce vita romana. Sapeva tutto di tutti quelli che contavano. Non ho mai capito come campasse, ma quello era un dettaglio. L’ho vista poche volte, non aveva moto tempo per un riflessivo come me. Prima di partire mi ero fatto dare il nome della discoteca dove lavora da amici comuni. L’ultima volta che l’avevo sentita era stato molti anni prima. Mi aveva telefonato lei. Aveva saputo che stavo organizzando una festa per la mia laurea e con la scusa di complimentarsi cercava di farsi invitare. Ovunque ci fosse una festa degna del nome lei c’era. Da allora più nulla. Claudio, un amico comune, mi aveva detto che era diventato grassa come una matrona e che era tornata a Capo Verde.
E ora sono nella sua città.
L’albergo dove si trova questo locale è esattamente di fronte al mio. E’ il migliore della città, da poco ristrutturato. Non poteva che essere così per una che viveva la notte. Anche a Mindelo evidentemente. La sera è fresca, appena un po’, si sta bene fuori. Nel giardino della piazza alcuni bambini giocano, coppie di fidanzati cinguettano i loro canti d’amore. Dal mare arriva l’odore del salso che tanto piace a chi – come me – abita lontano dal mare. Ripenso alla breve, tormentata, immatura storia tra la diciannovenne capoverdiana e l’imbranato studente d’architettura. Niente ci univa eppure l’attrazione era forte. La voglia di rivederla è tanta. Mi chiedo cosa avremmo da dirci dopo tanto tempo. Un gruppo di turisti chiassosi sale le scale dell’albergo salutati dalla guardia che staziona di fronte. Sono oramai le undici. I bambini sono tornati nello loro case e i fidanzati hanno trovato di meglio da fare. Anche i pochi turisti sono spariti. Mi alzo e torno in albergo. La notte è incredibilmente serena e silenziosa. Un vago senso di nostalgia mi pervade.
Aeroporto di Mindelo
7 dicembre ore 11.30. Il volo della TACV è in ritardo di un’ora e mezzo. La temperatura è ideale. Spira una leggera brezza che fa stare solo bene. Il bar serve un perfetto espresso da una macchina Cimbali un po’ retrò. Un paio di grasse turiste italiane dormono svaccate sulle poltroncine di stoffa verde, azzurro e beige, leopardate da macchie di ogni tipo. Il pavimento di plastica nera è pulito e una televisione è sintonizzata sul canale locale che trasmette un documentario di moda. La pista è perpendicolare al mare e il terminal parallelo alla stessa. Una perfetta geometria. Guardo la pista, nuova di zecca, a sinistra ha le brulle montagne dell’interno e a destra l’azzurro del mare. Il resto è niente. Un panorama minimalista.
Improbabili stilisti portoghesi dettano ai microfoni le linee guida delle loro collezioni e i pochi nativi osservano distratti.
Un lavoratore aeroportuale in tuta arancio con la scritta ASA (Aeroporto Segurança Aerea) sulle spalle ciondola come un rapace attorno alle carnose e svogliate prede italiane. La carne bianca fa sempre effetto a certe latitudini. I suoi occhi verdi sbirciano le prede con malcelata nonchalance. La brezza che entra dalle porte aperte sfoglia i libri delle turiste. Un lavavetri adolescente con cappello da baseball rosso si affanna a rendere invisibili i vetri. Ancora moda inutile alla TV. Non c’è traffico a quest’ora, il volo per Praia è l’unico della mattinata. Fuori una schiera di taxi variopinti ricorda il deposito di una concessionaria Mercedes anni Ottanta. Una lenta sonnolenza mina il mio attivismo frenetico di europeo. L’attesa che in qualsiasi aeroporto sarebbe una seccatura qui è un benvenuto relax, una sosta intrigante e riflessiva.
Forse Chatwin ha pensato l’Elogio dell’irrequietezza in un momento così.