
Le haciendas dell’henequén in Yucatan sono tra le residenze più suggestive e ricche di storia del Messico.
Ancora adesso percorrendo polverosi tratturi, spesso delimitati solo da alti cactus e rigogliose agavi, si scoprono improvvisamente le haciendas dell’henequén in Yucatan.
Sono le haciendas, le grandi fattorie poste a presidio di tenute che – prima della rivoluzione di Pancho Villa ed Emiliano Zapata del 1910 – potevano raggiungere l’estensione di stati come il Belgio. Da sempre organismi autosufficienti, in questi luoghi si nasceva, ci si sposava e si moriva. I proprietari erano i leader della comunità e spesso tutto intorno, per decine e decine di chilometri, erano solo campi e pascoli. Durante il periodo coloniale le dimensioni di questi complessi, i cui primi esempi risalgono al XVII secolo, aumentarono fino a raggiungere quelle attuali. Al loro interno trovarono posto la residenza per gli ospiti, lo spaccio, la cappella, la scuola, le abitazioni di servizio, il granaio, l’officina del fabbro, tutti disposti attorno al corral, il grande cortile. Negli esempi maggiori i cortili sono due: quello di servizio e quello padronale dove si affaccia il casco, ovvero la morada del patron, letteralmente la “dimora del padrone”.
Le aperture, non di rado tonde o ovali, appaiono riquadrate da fasce colorate o con modanature in pietra scura locale; le pareti sono dipinte con tinte forti, decise, oppure ricoperte di un abbagliante bianco calce.
Grande importanza è data poi alle scuderie dov’erano custoditi splendidi cavalli, orgoglio degli hacienderos. Le cucine erano ampie e il fabbisogno idrico del complesso, quando i pozzi dei cortili non bastavano, veniva soddisfatto con acquedotti privati. Questi grandi complessi nella maggior parte dei casi racchiudevano anche un giardino per lo svago delle signore. Qui passavano le giornate in attesa del ritorno dei mariti impegnati nell’amministrazione dei campi che, a volte, richiedeva viaggi di più giorni, per controllare la crescita del grano, della canna da zucchero, del sisal e dell’agave usata per la produzione del pulche, la tradizionale bevanda alcolica, e della tequila. Oggi molte di queste haciendas sono ancora possedute dai discendenti dei loro fondatori: alcune sono state trasformate in hotel o centri per congressi e molte sono ancora quelle che mantengono l’originaria destinazione.
Uayamón è la prima hacienda che visitiamo.
Una tenuta dove, come nelle altre che vedremo, si è prodotto henequén, ovvero sisal, fino a pochi decenni fa. La fibra veniva estratta dalle foglie di agave attraverso un complesso procedimento di bollitura e sfibratura, in un primo tempo realizzato con macchine a vapore e poi con enormi e rumorosi motori diesel. In alcune strutture questi impianti sono stati conservati e rimangono a testimoniare una stagione di grande benessere per la zona. Dalla metà dell’Ottocento e per tutto un secolo, praticamente fino a dopo la Seconda Guerra Mondiale e all’avvento della plastica, l’henequén ha rappresentato una fibra fondamentale per tantissimi utilizzi arricchendo enormemente gli hacienderos. Questi, molti di origine spagnola, avevano come punto di riferimento il vecchio Continente da dove si facevano inviare stoffe e mobili, nonché vini pregiati, formaggi e altre prelibatezze.
Lasciata la carretera principale si segue un lungo viale tra le piante di agave e finalmente si arriva al recinto padronale.
Uayamón è una delle più antiche haciendas della zona di Campeche, sorta alla fine del Cinquecento produceva in origine grano. Nel 1685, come altri insediamenti della zona, fu saccheggiata dai corsari Graff e Grammont che non risparmiarono nemmeno la città di Campeche. A metà dell’Ottocento a Uayamón si produceva mais, canna da zucchero e sisal. Il servizio nella casa padronale era assicurato da trentacinque inservienti ed era la seconda proprietà per importanza nella zona. Oggi altrettante persone si prendono cura di pochi privilegiati che scelgono questo ameno luogo sperduto nella vegetazione per trasformarsi in hacienderos. La dimora padronale ospita reception, bar, ristorante e biblioteca, mentre le stanze, o meglio le suites, si trovano nelle dieci villette, un tempo ad uso di funzionari e amministratori, sparse nel giardino. Tutto per un massimo di 24 ospiti, includendo le due “Colonial suite”, con piscina e giardino privato, ricavate nel vecchio ospedale. La piscina principale si trova tra i ruderi del complesso archeologico-industriale dove si estraeva il sisal.
La localizzazione è di sicuro impatto ma sono i dettagli che colpiscono. Tutti i mobili sono di antiquariato, i prati manicured, ogni dettaglio è curato con attenzione maniacale.
Il giorno seguente ripartiamo per l’Hacienda Santa Rosa.
Santa Rosa è a un’ora di auto. Tutta azzurra, la si vede da lontano, con a fianco la cappella del 1903 di un bel color rosso mattone. Anche l’edifico sovrastante la piscina, che era la vasca di raccolta dell’acqua piovana, è rosso. Ancora si vedono i canali che da qui partivano per portare l’acqua in giardino. Questo è delimitato da un lato da un lungo corpo di fabbrica dove erano alloggiati i lavoratori, al termine del quale, in prossimità della strada, si trovano le strutture industriali per la produzione del sisal. Le stanze sono grandi e soprattutto alte, almeno quattro metri, e i mobili sono quelli d’inizio secolo in legni pregiati. Qui si odora l’opulenza, quella del soldo fatto in fretta, non sempre accompagnata da un ottimo gusto. In ogni caso passarci la notte è un’emozione. Soprattutto quando con il temporale manca l’elettricità e si raggiunge il ristorante con l’ombrello e le torce in dotazione in ogni stanza.
All’indomani il sole splende che è una meraviglia e in due d’ore raggiungiamo l’Hacienda San José.
La scorgiamo da lontano con la sua alta ciminiera in mattoni anneriti ancora lì a testimoniare antichi fasti meccanici, un inno al vapore, quando con la sua forza si muoveva l’economia. Nel giardino c’è ancora una carrozza su binari. Un tempo una ferrovia privata collegava tutta la proprietà e serviva al trasporto dell’agave utilizzato per estrarre la sisal, per portare i lavoratori nei campi e il proprietario a ispezionare la proprietà.
Una ferrovia simile la si ritrova, molto meglio conservata, nella Hacienda Temozón, l’ultima che visitiamo e la più grande.
Qui vi sono ancora le carrozze per i proprietari con i sedili in morbida pelle nera e quelli con ruvide panche di legno per i lavoratori. La ferrovia portava le carrozze “signorili” fino nel giardino antistante la dimora padronale, passando sotto la stessa. A Temozón si può dimorare anche nel Cuarto del patrón, oggi suite presidenziale, con l’arredo d’epoca, giardino e piscina privati. Antiche cineserie, porcellane di Limoges e Capodimonte, sculture africane si mescolano con tela di Fiandra e stoffe damascate a testimonianza di un fasto non più eguagliato. Dal dopoguerra agli anni Sessanta è stata tutta una rovina per l’economia della sisal soppiantata dalla plastica. Così la trasformazione di queste dimore in alberghi di lusso per pochi raffinati ospiti è una soluzione ideale per la loro conservazione. L’hacienda di Temozón ad esempio ha funzionato fino agli anni Settanta, continuando a essere abitata ma le altre invece quando il Grupo Plan le ha acquisite erano ormai dei ruderi prossimi a scomparire.
A Temozón anche la cucina è un’esperienza.
Il menu propone un’esperienza d’altri tempi. Oltre alle tipiche specialità messicane, qui realizzate dalle mani esperte delle casalinghe del villaggio, non si può non segnalare il Queso relleno, il “formaggio ripieno”, un piatto che racconta tutta la storia delle haciendas henequeneras yucateche. Quando il sisal rendeva bene i signori locali si facevano inviare i formaggi dall’Europa, tra questi vi era quello olandese. Questo veniva in parte svuotato e riempito con un tritato di carne di maiale e manzo lessata, olive, cipolla e aromi; la forma veniva richiusa, quindi tagliata a fette poi servite con una salsa di chili dolce dopo essere state alcuni minuti in forno.
Le strutture sono parte de The Luxury Collection di Marriott e visibili sul sito www.marriott.com.