
In Yemen, tra incensi, qat e caffè, alla scoperta di ciò che rimane dell’Arabia Felix.
Ancora oggi non è chiaro se la regina di Saba sia davvero nata a Ma’rib alle porte del deserto, nel centro dello Yemen e sia stata lei a ispirare l’attuale cucina yemenita.
Nella Bibbia si descrive la sua visita al re Salomone e si racconta che “giunse a Gerusalemme con una grande carovana di cammelli carichi di spezie, molto oro e pietre preziose… mai più arrivarono tante spezie come quelle donate dalla regina di Saba”. Comunque sia, grazie alla via carovaniera dell’incenso che attraversava il Paese per continuare attraverso l’Arabia Saudita e Petra fino ai porti del Mediterraneo, il regno accumulò ricchezze tali da fargli guadagnare l’appellativo di Arabia Felix. Una regione felice anche per il clima, soprattutto sulle montagne, dove le piogge sono scarse e splende il sole tutto l’anno. Nella regione desertica che si estende fino all’Hadramaut, invece, da maggio a settembre le temperature si fanno torride. Diverso il clima e anche il paesaggio. Verde e fertile sulle alture, arido e roccioso nelle valli. Anche per queste diversificazioni la cucina yemenita varia da regione a regione.
L’indipendenza di cui questo territorio ha goduto ha portato alla totale chiusura del Paese e ha permesso lo sviluppo di espressioni artistiche originali a cominciare dalle fiabesche case-torri.
Questi edifici si sviluppano su 4 o 5 piani e a ciascuna corrisponde un diverso grado di intimità (crescente dal basso verso l’alto): al piano terreno le stalle per gli animali, sopra i magazzini, quindi gli alloggi dei domestici, un soggiorno per gli ospiti, gli appartamenti privati, infine la terrazza scoperta dove le donne svolgono i lavori domestici. È qui che si trova anche il mafraj, la sala dei ricevimenti, riccamente decorata, arredata con grandi tappeti e cuscini ordinatamente disposti lungo le pareti. Sempre qui gli uomini si ritrovano dopo pranzo per masticare le foglioline del qat, la pianta di origine etiope che da oltre un secolo ha conquistato gli yemeniti. Con un blando effetto rilassante e sedativo fa parte delle abitudini più radicate della regione. Alle donne, che conducono una vita appartata e separata dagli uomini, anche in casa, non è permesso di partecipare al rito. Esse hanno propri spazi di riunione, mangiano da sole e quando ci sono ospiti diventano praticamente invisibili.
Ancora oggi a Sana’a gli uomini passeggiano con il jambiyyat, il tradizionale pugnale dalla lama ricurva che compare con la pubertà e accompagna ogni yemenita fino alla tomba.
Fuori della capitale l’ostentazione della virilità richiede anche un kalashnikov a tracolla: lo spirito tribale ancora vivo presuppone che il maschio sia “attrezzato” per la difesa propria e della sua gente. Se questo può impressionare il visitatore occidentale non deve però trarre in inganno. La gente è incredibilmente ospitale: basta avvicinarsi a chiunque stia mangiando per essere subito invitati a unirsi a lui. A fronte dei grandi traffici commerciali che hanno attraversato la regione – l’incenso prima, poi il caffè e ora il turismo – il paese ha conservato pressoché intatta la sua cultura, anche quella culinaria, la quale ha mantenuto i caratteri di un mondo medievale, privo delle attrezzature tecnologiche a noi familiari ma soprattutto legato a una società in parte nomade che ha fatto della trasportabilità del cibo un’esigenza imprescindibile.
Gli yemeniti considerano pollo e pesce cibi per i poveri.
In effetti sono molto meno costosi dell’agnello e del montone ma anche più deperibili e non potevano essere portati in viaggio con le carovane. Anche il Corano suggerisce le carni degli ovini. Di certo queste appena macellate sono dure, il giorno seguente buone e tenere, il terzo già problematiche e dal quarto assumono una sospetta colorazione verdognola. I nomadi le consumano comunque senza risentirne minimamente grazie all’assuefazione dei loro stomaci ma anche al fatto che raramente sono veicolo di infezioni come invece è quelle di maiale ad esempio. Assieme ad altri cibi trasportabili come riso, datteri, uvetta, pistacchi, granaglie, aglio e spezie (soprattutto cumino, cardamomo, pepe nero e cannella) compongono gli ingredienti base della cucina yemenita.
La mia guida nei meandri della tradizione culinaria locale è Maha al Khulaidi, italo yemenita, autore di un libro sulla cucina del Paese e attivissimo nella conservazione del patrimonio culturale del Paese.
Nell’introdurmi alla giornata tipo della tavola del posto, insiste perché io annoti ogni dettaglio di questo patrimonio di conoscenze che sta sparendo lentamente nella contaminazione con influenze etiopi e indiane. che mi fa da anfitrione guidandomi nei meandri della tradizione culinaria locale insiste perché si racconti ogni dettaglio di questo patrimonio di conoscenze che sta lentamente sparendo mescolandosi con influenze etiopi e indiane.
Nella terra di Saba dimenticatevi il rito del pasto. Esso non esiste.
Non esiste nel senso occidentale di momento aggregante del nucleo familiare o di un gruppo di amici; non esiste a casa e nemmeno al ristorante. Questa funzione è demandata alla seduta pomeridiana del qat. A tavola sarete seduti per terra su una stuoia, mangerete veloci e in silenzio per rispetto al cibo, inizierete solo dopo che il più anziano abbia cominciato e mai senza pronunciare la formula bisbilla (“nel nome di Dio”). Userete le mani, o meglio la mano destra, l’altra è quella impura riservata alle abluzioni; attingerete da un piatto comune, berrete acqua o succo di zibibbo e alla fine ringrazierete Dio con la formula handulialle.
I pasti sono i tre tradizionali: colazione, pranzo e cena, e quest’ultima, al contrario delle abitudini occidentali, è meno impegnativa, e vi si consumano solo gli avanzi dei primi due.
La giornata inizia con una ricca colazione a base di carne ovina e foul (un passato di legumi e pomodori con l’aggiunta di pane e spezie). Qualche volta a volte in alternativa alla carne si preferisce il fegato, considerato più leggero e per questo più adatto all’apertura della giornata. Naturalmente il tutto servito su un letto di riso bianco o speziato, inseparabile accompagnamento di ogni piatto yemenita e con l’eventuale aggiunta di verdure cotte. Si beve il qishr, il tradizionale infuso di pula di caffè aromatizzato con zenzero, cannella e cardamomo, oppure tè al latte e menta, spesso profumato con cardamomo. Il pranzo è il pasto centrale. Si apre con un brodo di carne, a cui fa seguito un piatto di riso con verdure. Per ultima viene servita la carne, prevalentemente ovina e lessata (per poi riutilizzare il brodo) ma anche al forno (avvolta in foglie di banano) o arrosto. Presenza costante sulla tavola è il pane, di diversi tipi ma sempre azzimo. Il più comune è il kudam, rotondo, alto circa un centimetro, impastato con una miscela di farine che varia a seconda della disponibilità del momento. È il “pane da viaggio”, quello che mercanti e carovanieri portavano con sé durante le traversate dei deserti. Poi c’è il malawah forse importato dagli Etiopi durante una invasione assieme alle piante di qat, migliore del primo, anch’esso rotondo, buono caldo. Un altro tipo di pane molto diffuso è il khabz, che viene cotto, dopo essere stato ridotto in un foglio sottile di pasta, lanciandolo contro le pareti interne del forno a legna, a cui resta aderente. Lo si mangia caldo, ricoperto di semi di cumino.
Alcuni dei piatti serviti a pranzo sono specialità considerate “nazionali”. Una di queste è il salta.
Se lo ordinate (nei ristorantini attorno al mercato lo servono per poco più di un euro) vi troverete davanti a una pentola di pietra nera appena levata dal fuoco contenente un liquido denso e schiumoso di colore giallastro in ebollizione. Niente di particolarmente invitante. In attesa che quella lava incandescente si raffreddi vi verrà servito lo shafut che accompagna ogni pranzo. Consideratelo un antipasto. Si tratta di un intingolo denominato sahawak a base di yogurt o formaggio accompagnata dal malawah, il pane bucherellato di origine etiope. Nel frattempo la vostra pentola di pietra si sarà raffreddata e il salta si rivelerà una deliziosa minestra fatta di brodo di carne, con uova sode intere, spezie piccanti, fagioli, riso, il tutto gustosamente legato dalla trigonella, detta anche fieno greco, erba aromatica dalle caratteristiche foglie triangolari che una volta seccate vengono ridotte in polvere (di colore giallastro) divenuta il vero leit motiv della cucina yemenita. La tradizione popolare vuole che questo piatto abbia un blando effetto lassativo, utile a contrastare l’effetto opposto determinato dal qat. In alternativa al salta si può ordinare il kibsah, riso speziato con carne di capretto in pezzi, oppure il saibyah, stesso piatto ma a base di pesce. Attorno al mercato del qat a Sana’a vi sono bancarelle che servono l’hanid, bocconi di carne di capretto speziato, cotti nel forno a legna e tradizionalmente avvolti in foglie di banano, oggi spesso sostituite dall’alluminio. Un pasto così costruito costa circa un euro e mezzo.
Ma quando si mangia in casa o nei banchetti, dopo la carne si usa servire un piatto dolce per “nettare la bocca”.
È a tutti gli effetti un dessert e risulterà ottimo accompagnato da un tè al latte e menta. Due le scelte possibili: il fattah, tipico del sud, che consiste in un pane impastato con burro, banana e miele servito caldo; e il bint al-sahan, tipico del nord, chiamato anche “la ragazza del piatto”. È una torta a base di miele, farina e uova composta da sottilissimi fogli di pasta sovrapposti, costellata di semi di anice, servita calda ed esclusivamente a pranzo.
Non essendo il pasto un rito sono diffusi anche vari tipi di stuzzichini, una sorta di street food disponibile a tutte le ore e ovunque.
Sono numerosi e spaziano dal djerra, cavallette speziate arrosto, agli invitanti sambusa, involtini triangolari fritti riempiti con un impasto di carne macinata, cipolla e spezie. I sambusa, assieme ad altri snack tradizionali si potranno assaggiare con tutt’altra tranquillità igienica e tutt’altra presentazione nel sala bar che la bella Maha aprirà a Sana’a per avvicinare i visitatori a una esperienza completa anche dell’aspetto gastronomico.