
Sosta a Cotonou … per capodanno
Di un viaggio in Ghana, Togo e Benin se ne parlava dal luglio scorso. Poi si è finiti in Namibia e così è slittato a dicembre e sono dovuto partire solo.
Solo anche nel senso di dopo gli altri del gruppo per non aver ricevuto il passaporto in tempo. Ma questo sarebbe il meno. Sono le notti in tenda che mi hanno preoccupato. La totale mancanza di privacy, la scomodità. Per sopportare queste situazioni si devono vedere cose veramente bellissime e indimenticabili altrimenti tutto diviene solo un inutile tour de force. Ho comperato sacco a pelo, cuscino gonfiabile, borraccia, pila e coltellino multiuso. E sono partito ma non avevo certo in programma di fare capodanno a Cotonou.
Le decisioni più difficili, drammatiche si prendono da soli.
Nell’angosciosa solitudine dell’hotel di Lomé (non conosco la categoria ufficiale, la mia classificazione è 3 stelle sottozero), nel frastuono del rock live del baretto sul retro, nel caldo appiccicoso sulle lenzuola peluccose di finto cotone. Il cuscino nuovo di plastica che odora – appunto – di plastica. E poi l’emicrania da alcol in aereo. Nell’addormentarmi prendo la decisione dell’abbandono. Fare solo la costa (architettura coloniale), tralasciare il nord (architettura indigena), rimanere il meno possibile e fuggire. A caro prezzo, perché tutti questi fuori programma hanno finito per costare un patrimonio.
31 dicembre, capodanno a Cotonou
All’approssimarsi della mezzanotte tento di addormentarmi in una Cotonou riunita nella unica festa decente in città, quella appunto dello Sheraton. Dalla finestra curioso un po’. Non è che questo viaggio mi stravolga per la bellezza delle cose viste. Tutt’altro. Grandi città come Lomé e Cotonou. Qua e là si intravedono le poche testimonianze lasciate dai coloni portoghesi e francesi prima e poi anche inglesi. Tutto uniformemente degradato, fatiscente e umiliato dalla noncuranza e dal disgusto dei nativi per tutto quanto è vecchio.
Il mio autista è Aboudoudjalidou.
33 anni portati male, baffi e pizzetto alla maresciallo diremmo noi, musulmano, sposato con due figli insiste a mostrarmi i nuovi hotels, i nuovi ministeri finché, dopo che l’ho portato dalle parti del mercato a cercare le case portoghesi e francesi di un paio di secoli fa, ha avuto l’illuminazione. <<Ma a te piacciono le case vecchie>>, sì a parte le donne – gli dico – e chiudo subito il discorso prima che gli vengano strane idee in mente. In effetti le case vecchie, come dice lui, sono queste dimore neanche tanto auliche, ormai divise tra innumerevoli famiglie. Ovviamente nessuno sa cosa vuol dire manutenzione e così divengono sempre più vecchie e decadenti. Tante infatti vengono demolite. È una parte dell’immagine e della storia cittadina che se ne va ma non è una grande perdita per la storia dell’arte. I materiali sono poveri, la progettazione anche, le dimensioni contenute. Non dovevano essere poi così ricchi questi coloni. Niente se si pensa alle dimore dell’Indocina o dei Carabi. Terre ricche di piantatori e non di funzionari.
Sono ormai le undici.
La festa sulla piscina è in pieno svolgimento. Un’ombra di solitudine si prospetta per subito scomparire. Protetto dai vetri insonorizzati vedo tutti come in un acquario. Penso che attenderò il nuovo anno dormendo. Penso agli altri del gruppo a festeggiare nella tenda (che si sono montati da soli) in una qualsiasi landa desolata nel nord del paese. Non riesco a invidiarli.
Guardo giù e vedo nugoli di bimbi scorrazzare attorno alla piscina.
Quello che impressiona in queste regioni è il gran numero di bambini. In ogni dove si materializzano frotte di infanti seminudi, spesso scalzi e dallo sguardo non sempre sveglio. Molti chiedono un cadeau, non so a quale titolo (essere bianchi basta?). In tutta l’Africa, eccetto forse per il Sudafrica, il solo fatto di essere europei comporta un obolo, un pedaggio. Innumerevoli volte mi sono sentito chiedere denaro, anche dai grandi, per il solo fatto che stavo fotografando un edificio passeggiando nella pubblica via. Un edificio che non era nemmeno loro, né ci vivevano. La dignità è anche non chiedere, se non dare senza chiedere. Ancora vedo l’ennesima matrona, grassa e scomposta, mentre biascica accalorata e accaldata le sue litanie pietose terminanti nell’immancabile richiesta di un cadeau. La guardo mentre non sa se stare seria e continuare nella parte o mettersi a ridere per la messa in scena che ha saputo magistralmente rappresentare. Mi piacerebbe sapere quanto ci crede.
È ormai mezzanotte.
I brindisi, la musica, qualche fuoco artificiale sul mare. Ed ecco la scritta fatta di lampadine che si tramuta nel nuovo anno. Ora che il nuovo anno è davvero partito posso andare a dormire certo di non aver ancora preso il mal d’Africa. La musica va avanti, magari quelli nella landa desolata già dormono sereni sotto le stelle.