
A pranzo col potere.
I luoghi del Power Lunch a Washington alla fine non sono tanti, il rito è infatti super esclusivo.
Washington non è l’America, ma è qui che se ne decide il destino. Un potere che è nelle mani di politici, senatori, lobbyist e tycoon; pochi, determinati individui che vivono esistenze molto particolari. Esistenze dove di privato rimane ben poco e dove attività fondamentali come nutrirsi passano in secondo piano. Che la gente di potere mangiasse male e in fretta è un luogo comune raramente smentito. E’ noto che Churchill era un buongustaio e amava dedicare ai pasti il tempo necessario, che Nixon era un ottimo conoscitore di rari vini francesi che si faceva servire in anonime caraffe per non umiliare (o invogliare) gli ospiti, ai quali in altrettanto anonime caraffe faceva servire passabili vini californiani. Ma da Reagan in poi lo stile di vita del mondo politico ed economico americano ha subito una forte accelerazione. In questo contesto il tempo per il pranzo è diventato oltremodo prezioso e il rito del nutrirsi a mezzodì si è trasformato in un rapido e anonimo spuntino, ed ecco proliferare i luoghi del Power Lunch a Washington.
Gli uomini d’affari da tempo utilizzavano la pausa pranzo per incontri e trattative, magari proprio approfittando dell’atmosfera conviviale che aiuta ad affrontare argomenti anche delicati con una certa leggerezza.
E’ al Four Seasons di New York che è nato il termine power lunch. Negli anni passati il suo ristorante era sempre più spesso usato per gli incontri dei grandi della finanza, della moda e dell’editoria. Lo stesso è successo al ristorante del St. Regis in 16 Street all’angolo con K Street, a due isolati dalla Casa Bianca. Storico albergo inaugurato nel 1926, tra le sue sale in stile neorinascimentale sono passati regnanti e presidenti in visita, quasi fosse una depéndance della residenza presidenziale. I candelieri Luigi XVI, le tende damascate, i marmi, gli ottoni lucidati a specchio e le boiserie sono stati testimoni di tanta vita washingtoniana e ultimamente anche dei più blasonati power lunch cittadini. Il direttore del ristorante Daniel Mahdavian, sprofondato nelle poltroncine in pelle bordeaux della Library Lunge non si lascia sfuggire nomi ma lascia intendere non è una questione di fede politica ma di posizione istituzionale. Qui il power lunch inizia con un aperitivo in attesa si liberi il tavolo preferito e tra le scelte gastronomiche campeggia il sea bass con verdure novelle. Il segreto pare sia il burro aromatizzato alla menta che lo chef prepara appositamente. Quella del St. Regis è la sala più elegante tra quelle scelte per i power lunch, e rappresenta indubbiamente una eccezione.
La locuzione è così nota che una ditta di giochi da tavolo, la Mayfair Games, ha addirittura prodotto un gioco di società ideato da due event planner di Washington, Carrol Habit e Jeff Dailey, due grandi conoscitori di vizi privati e pubbliche virtù dello star system e della variegata fauna capitolina.
Già, la fauna. Nel bar del Caucus Room, uno dei templi dei power lunch washingtoniani campeggia una tela di William Woodward dove un gruppo di animali è seduto attorno a un tavolo spartendosi un tipico pie americano. Tra questi vi sono un asino, un elefante, un orso e un toro a rappresentare democratici, repubblicani e finanzieri di Wall Street, affiancati da scimmie ammaestrate e rapaci avvoltoi, efficaci allegorie del famelico circo dei media. E’ questa una gaudente ma precisa metafora della Washington del potere, un singolare universo coeso dal denaro, dal potere, dalle relazioni sociali e dall’istinto di conservazione. Non a caso la scena si svolge attorno al pie, perché è proprio di fronte a una tavola imbandita che taluni personaggi danno il meglio di sé (o il peggio a seconda dei casi). La mattina dell’11 settembre ai tavoli del ristorante del St. Regis si trovava il direttore della CIA con alcuni senatori repubblicani, e stava imburrando un croissant caldo di forno quando è stato raggiunto dalla notizia del primo schianto. Perché il power lunch può essere anche un power breakfast, anzi il general manager dell’albergo ci spiega come il suo ristorante sia uno dei pochi a offrire occasioni d’incontro conviviali anche per la prima colazione. L’ubicazione al piano terra con elegante ingresso indipendente ovviamente è d’aiuto.
Ma se state pensando che i power lunch avvengano solo in ovattate oasi di esclusività vi sbagliate di grosso.
Dimenticatevi suite, caviale e champagne, stuoli di camerieri inamidati, sommelier dai guanti bianchi e quant’altro l’iconografia del lusso ci ha abituato. Il power lunch per funzionare deve essere un incontro quasi casuale in un contesto dove poi di casuale non c’è nulla. Nemmeno la cravatta dei lobbyist, noti per intonarle ai colori dominanti dei ristoranti che scelgono. Guai ad apparire come una nota stonata, equivarrebbe a presentarsi come uno fuori dal giro. Si sa che a La Colline domina il verde niente di meglio quindi che una regimental verde e blu, dato che il vetro dei separé è appunto di quel colore. Dicevamo della casualità apparente, regola fondamentale e non detta. Il lobbyist invita il politico per orientarlo (si legge convincerlo) verso determinate scelte. Questa attività di persuasione più o meno occulta deve prendere le mosse al largo e seguire un percorso di avvicinamento, con continui riferimenti alle posizioni già assunte dal politico. E’ un lavoro di concentrazione che deve avvenire però con grande leggerezza, in un ambiente tranquillo e in una riunione apparentemente solo conviviale.
Ecco quindi che i ristoranti eletti per i power lunch devono avere determinati requisiti.
Innanzi tutto l’ubicazione, nei pressi dei centri di potere ovvero il Campidoglio e la Casa Bianca. In genere non hanno vetrate sulla strada o se le hanno vengono schermate. I ristoranti in sé non sono particolarmente impressive, prendete The Monocle ad esempio, quanto di più semplice e quasi ordinario si possa immaginare, aggiungeremmo anche un po’ stantio. Eppure è in assoluto il più frequentato dai senatori.
Il servizio è un aspetto qualificante per ristoranti di questo tipo. Deve essere impeccabile ma discreto. Il cameriere deve avere la dote della trasparenza, vedere senza essere visto. Ma soprattutto deve essere personalizzato. I clienti vengono salutati per nome, i loro gusti memorizzati, in modo da ricordare il tavolo preferito, i vini graditi, le annate, come preferiscono cotta la bistecca.
Al St. Regis ad esempio non manca mai la gelatina di lampone allo cherry, una preparazione dello chef che piace al direttore della CIA e pare ancor più alle guardie del corpo che non mancano di fare una capatina poco istituzionale nelle cucine. I tavoli per i power lunch devono poi essere ben distanziati e nel menu non deve mancare la carne, magari proprio le famose porterhouse steak stagionate per due o tre settimane tanto amate dagli americani di ogni estrazione. Ancora una volta chi si aspettava sublimi creazioni di haute cuisine rimarrà deluso. Chi ha veramente il potere a pranzo mangia bistecche alte tre dita o crabcakes in forma di burger.
E tra questi templi della carne non poteva mancare una vera, americanissima, steakhouse, il Bobby Van’s sulla quindicesima strada, a un isolato dalla Casa Bianca.
Se state pensando che i camerieri non siano i soliti macho latini siete ancora fuori strada, forse pensavate che la scontata scenografia di teste imbalsamate, corna e rivestimenti in pelle vi fosse risparmiata. Nemmeno per sogno. Bobby Van’s è esattamente tutto questo. Eppure è proprio la steakhouse preferita da Bill Clinton che era solito venirci con i senatori democratici. Le consorti erano escluse dal rito e così venivano loro risparmiate le battute grevi così come la trasgressione dei buoni propositi dietetici. La sua porterhouse steak doveva essere abbondante, stagionata per sei settimane (come dovrebbero essere tutte quelle servite) e cotta medium rare, con una leggera crosta ma di un rosso intenso all’interno, juicy quanto basta. Il democratico John Kerry, altro appassionato cliente, invece la preferisce decisamente rare e sanguigna. John Simkins, il general manager, sostiene che è il modo migliore di gustarla e aggiunge che così la vogliono la gente schietta e decisa. Il primo ristorante della catena è sorto a New York e diventò famoso negli anni Settanta, vi si riunivano i grandi della letteratura a partire da Truman Capote. Bobby Van era il pianista che nei primi tempi allietava gli avventori. Ma questo è un ristorante decisamente maschile.
Le first lady in genere preferiscono The Monocle in D Street, a un tiro di schioppo dal Campidoglio.
E’ qui che Hillary Clinton organizzava le sue periodiche riunioni delle donne senatrici. Sempre nella Wine Room, la saletta al primo piano. Una minuscola bomboniera di vetri e specchi con il pavimento in legno scricchiolante, un grande tavolo circolare al centro e un paio di credenze alle pareti. Qui i camerieri passano a malapena ma per Hillary era “so cosy”, le servivano il Crab Conrad, su un letto di pancetta croccante e purea di spinaci. Un piatto gustoso ma non raffinato. Sarà forse l’influenza del marito, che se avesse potuto ogni tanto si sarebbe sfamato da Mc Donald, o forse una buona dose di understatment molto politically correct. The Monocle ha una quarantina d’anni (e li dimostra tutti), fondato dai genitori di John Valanos, l’attuale proprietario, che non ha mai cambiato il menu. Qui facevano sosta i giovani senatori Kennedy, John e Bob, sulla via delle elezioni e tanto vi erano affezionati che non lo tradirono nemmeno dopo le nomine. E’ noto che il presidente inviava l’autista con la “limo” per farsi recapitare i crabcakes per lui e il fratello durante le riunioni di lavoro. Era il padre di John che saliva sull’immensa Cadillac con le due cupole in mano. Alle pareti sono le loro foto con dedica assieme a quelle di un centinaio di politici che hanno fatto la storia americana dal dopoguerra ad oggi. Sono presenze “mobili” ci confida il proprietario. I ritratti si spostano per assecondare l’appartenenza politica degli avventori, al 90 percento senatori. Qui il telefono squilla in continuazione per avvisare i rappresentanti del popolo americano intenti a nutrirsi che in aula si è prossimi alla votazione. E sono sempre loro i senatori ad avere la precedenza sulle ordinazioni. La gente lo sa e accetta di buon grado. Del resto non è cosa di tutti i giorni pranzare con almeno una decina di senatori attorno e poi questo è il prezzo per il people-watching. Dopo il joggin lo sport più praticato nella capitale.
La Colline è un altro dei ristoranti “da senatore” nei pressi appunto della collina del Campidoglio.
E’ stato aperto vent’anni fa da Paolo Zucconi (omonimo del giornalista) che ha qui profuso la sua esperienza italiana. Il menu cambia ogni giorno, quando l’abbiamo visitato si serviva un perfetto, tradizionale ossobuco alla romana, e il suo è considerato il cibo migliore nella zona. Guai a immaginarsi preparazioni dietetiche o ipocaloriche, i menu dei power lunch sono ricchi e poco adatti allo stile di vita degli avventori. Anche qui campeggiano le foto di presidenti e senatori, anche se in forma più discreta che altrove. La Colline, assieme a The Monocle, è considerato la “mensa” del Campidoglio. Presi d’assalto di giorno e semideserti alla sera, salvo quando i lavori al senato si protraggono fino a tardi.
C’è poi il Caucus Room.
Di gran lunga il più raffinato e accogliente. Rigorosamente cieco sulla strada, pannelli di ciliegio alle pareti, pavimenti in marmo, luci soffuse e sapientemente orientate. E’ una creazione nata da un pool di investitori legati a entrambi i partiti. Il menu è stato studiato dallo chef Richard Beckel, per lui tutti gli americani discendono da qualcos’altro quindi studia le cucine del mondo, prende ricette, idee e tecniche e grazie a un cosmico “copia&incolla” crea nuovi piatti. Qui gli avventori sono più lobbyist che politici, sono i grandi della finanza piuttosto che quelli dell’establishment politico. Ma soprattutto sono più giovani. Scelgono sea bass e crabcake, devono San Pellegrino e concludono con l’espresso Illy. Al Caucus Room non vi sono ritratti alle pareti, chi lo frequenta ha una storia ancora breve. Il direttore Ed D’Alessandro (lontane origini italiane) ricorda soddisfatto come il suo sia una dei ristoranti più eleganti della città assieme a quello del St. Regis. Dedicato alla nuova classe dei potenti emergenti. Colta e aperta all’autoironia (è qui che campeggia la caricatura del potere washingtoniano di Woodward), sempre alla ricerca di nuovi piatti, belli ma soprattutto tasty&safty. E’ la generazione dei quarantenni che sudano nella palestra del senato, corrono sulle rive del Potomac e scelgono il cibo in base alle calorie (e a improbabili considerazioni zen). Non sappiamo se i loro incontri conviviali di mezzogiorno ottengano buoni risultati ma di certo sono digeribili.